categoria | Diritti umani, Famiglia e Minori, Sociali

La tempesta dentro: amore e tormento nella storia delle madri infanticide

Inserito il 17 maggio 2012 da Maria Rosa DOMINICI

In uno struggente flash back del film Maternity Blues, da qualche giorno nelle nostre sale, Clara (Andrea Osvart) entra nell’acqua vestita tenendo in braccio il bimbo più piccolo, mentre il fratellino, scambiando per un gioco quella pulsione di morte, grida “aspettatemi”. Frammenti ricostruiscono le storie di quattro donne colpevoli del delitto più inaccettabile per la società, l’uccisione di un figlio. Sono assassine, rinchiuse in un ospedale psichiatrico giudiziario, ma sono come “morte che camminano”, che si sono condannate da sole e ora rifiutano un’alternativa di vita.

Il film racconta senza giudicare, fa intravedere i motivi di questo gesto estremo attraverso immagini di solitudine, esasperazione, fragilità, suggerisce un possibile “concorso di colpa”.

Dice il regista Fabrizio Cattani: “E’ un dramma che può succedere a chiunque abbia alle spalle storie tragiche o si trovi in una situazione familiare difficile, di abbandono. Non a caso il 95 per cento degli infanticidi avviene nel Nord Italia, dove non esiste più la famiglia allargata”.

Colpito dall’intensità del soggetto di “From Medea”,spettacolo teatrale e poi libro di Grazia Verasani, Cattani ha parlato a lungo con Antonino Calogero, lo psichiatra dell’ospedale giudiziario di Castiglione delle Stiviere (unica struttura in Italia a ospitare infanticide, che vi restano in media per un periodo di 8 anni), per poi ritrarre le quattro donne in una convivenza forzata dove tra confessioni spezzate, crisi e timidi tentativi di “normalità”, germogliano amicizie che tuttavia non possono consolare.

C’è un’infinita tristezza nelle vicende di Caterina (Chiara Martegiani), incinta a 16 anni, che non “sapeva quel che faceva” mentre spingeva sott’acqua la bambina che amava. Sapeva soltanto che non è un istinto naturale la maternità.

Come Clara che alla nascita del secondo figlio, si sente ripetere dalla madre “non preoccuparti, ti verrà naturale” e invece non riesce più a dormire e di notte fissa il muro mentre il bimbo piange. Piange a dirotto come il figlio di Marina (Claudia Pandolfi) nel discusso film “Quando la notte” di Cristina Comencini, che attraverso un gesto di violenza quasi inconsapevole (eppure dalle possibili tragiche conseguenze) ha cercato di incrinare il tabù della maternità, svelandone il lato più “imperfetto”, la zona d’ombra. Perché di fronte alla retorica di un inequivocabile sentimento materno, chi non prova quello che “si deve” provare si sente immediatamente cattiva, un mostro, scrive Barbara Mapelli sul sito zeroviolenzadonne.it.

“Essere madre non era un personaggio che sentivo” dice Vincenza (Marina Pennafina), una delle protagoniste di Maternity Blues, che ha agito come in trance e adesso scrive nel diario “amori miei crescervi è stata la cosa è più bella”. C’è anche Eloisa (Monica Birladeanu), ex cantante, dura, strafottente, che respinge il senso di colpa, ma poi confessa “mi manca il mio bambino”, quel figlio che forse era stato solo il tramite per legare a sé un uomo lontano.

“Volevo rompere il silenzio attorno alla vergogna inconfessabile di chi non si sente in grado di gestire la maternità”

prosegue Cattani. “Non tutte queste donne sono psicotiche e i medici cercano di avvicinarsi al loro mondo risvegliando la parte sana rimasta. Talvolta il reinserimento è possibile, anche se molte poi preferiscono ritornare dentro, in quella specie di limbo dove si specchiano l’una nell’altra, negli ospedali giudiziari, come quello di Castiglione delle Stiviere, strutture che vergognosamente un progetto di legge del 2013 vorrebbe chiudere”. Così Clara, nel film, non riesce a condividere una speranza di rinascita insieme al marito schiacciato dal dolore ma alla ricerca di strumenti per capire e perdonare. Una figura positiva che compensa l’evanescenza degli altri uomini assenti o irresponsabili.

“Abbiamo una tempesta dentro che non esce mai: è la frase del film che mi ha colpito”, osserva la psicoterapeuta Luisa Scuratti, che da tempo si occupa della relazione madre-bambino.

“Questa tempesta è una specie di bomba ad orologeria, è il cruccio, la vergogna devastante che non si possono esplicitare: non sono all’altezza, dovrei essere un’altra. Di fronte a questa sensazione di incapacità, di inadeguatezza, vissute come stigma e non come difficoltà transitorie, l’unica soluzione è “eliminare” il problema. Queste donne non riescono a chiedere aiuto perché sarebbe in contraddizione con la sensazione di dover essere una madre perfetta. Nel loro background ci sono una sfiducia, una fragilità, che si riaccendono con la nascita del figlio, creando un terribile corto circuito”. “Come aiutarle? – prosegue la psicoterapeuta -. Il problema è farle parlare di questa fatica, legittimare la frase “non ce la faccio”, quel cruccio che può capitare a chiunque senza banalizzarlo ma anche senza farle sentire in colpa”. “C’è sempre una miscellanea di motivi in questi gesti estremi – conclude Luisa Scuratti -, attraverso il figlio tendo a eliminare qualcosa che non ho imparato emotivamente ad affrontare, e in quell’attimo il bambino non è l’altro riconosciuto nella mia difficoltà, ma è colui che mi mette in difficoltà, il nemico”. Ambivalenza dei sentimenti anche nell’ultimo libro (ne parla Giuseppina Manin, nel post “A proposito di Kevin”) della psicoanalista Lella Ravasi Bellocchio, “L’amore è un’ombra. Perché tutte le mamme possono essere terribili”. Si analizzano tragiche catene madre-figlia, alla cui origine ci sono sempre madri negative, aggressive o depresse. “Perché la madre terribile non è presente solo nei miti e nelle tradizioni, ma è l’ombra inquieta che alberga in tutte le madri, anche le “buone”.

E con il senso di onnipotenza della creazione e della distruzione inesorabilmente tutte le madri devono confrontarsi”.

Il film non giudica, e voi? C’è una possibilità di ricominciare per queste donne che hanno commesso un gesto così tremendo ma che stanno anche pagando un prezzo altissimo? Come si può prevenire questo tipo di delitti? E quanto la retorica della maternità perfetta può schiacciare persone già fragili e sfiduciate?

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Maria Rosa DOMINICI

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psicologa,psicoterapeuta vittimologa,membro dell'Accademia Teatina delle Scienze,della New York Academy ofSciences,dell'International Ass. of Juvenile and Family Court Magistrates,della Società Italiana di Vittimologia,della W.S.V.,dell'Ass.internazionale di Studi Medico Psico Religiosi.,docente di seminari di sessuologia, criminologia e vittimologia in università Italiane e straniere,esperta per progetti Daphne su tratta di minori e sfruttamento sessuale,creatrice del progetto Psicantropos,autrice di varie pubblicazioni,si occupa di minori e reati ad essi connessi da 40 anni.

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